Scene da un compito in classe… (attraverso gli occhi del prof)


120′ alla fine della prova

I ragazzi hanno tutti il capo chino sul foglio.

Tranne G. che mi lancia occhiate di studio. Sono il suo prof. di matematica, è normale che mi guardi spesso, nella maniera più cupa possibile, sono abituato a questi sguardi da quasi un decennio. Quando, però, lo fa in modo nervoso durante il compito in classe non può che essere sintomo di un imminente tentativo di condotta irregolare.

Non ci vuole molto a capirlo, soprattutto perché sono stato dall’altra parte e, nonostante il tempo trascorso, ne porto ancora i segni. Quando dovevo chiedere qualcosa a “quello bravo“, non potevo certo farlo alla luce del sole e allora davo – davamo tutti – spazio all’inventiva. Per adesso mi limito ad osservarlo, girargli un po’ attorno e chiedere se per caso non senta la voglia/necessità di fare qualche domanda per un suo chiarimento. Dice che è tutto a posto, ma il suo foglio ha ancora solamente il nome. Il cognome no e conoscendo il tipo me lo aspettavo… troppa fatica.

Pormi una domanda potrebbe poi avere solo conseguenze negative: se non dovesse essere pertinente (probabilità stimata 85%) rischierebbe di fare una figuraccia e soprattutto metterebbe in dubbio il compito da 8 che sogna ancora di riuscire a… svolgere in un modo o nell’altro; se viceversa dovesse mostrarsi valida, potrebbe portarlo a ricevere delle mie controdomande di supporto, nel tentativo di farlo giungere autonomamente alla soluzione; domande delle quali probabilmente ignora non solo la risposta ma persino l’esistenza.

L., invece, è partita spedita, forte del suo 9, scritto ed orale (che per me avrebbe potuto anche essere 10, persino 11 o 16); non ha più alzato la testa dal foglio e soprattutto la sua penna non si è mai fermata. In questo momento la odiano tutti, probabilmente la regge a malapena anche il fidanzato M. che, 3 file più indietro, si limita a guardare fuori dalla finestra non vedendo l’ora che finisca questo strazio (parola che potrebbe essere riferita indifferentemente al compito, alla giornata di scuola, all’intero ciclo di studi). C’è un qualcosa di magico che unisce le brave ragazze ai bad boys, ma non è questo il momento né il contesto adatto per approfondire la questione (nè per rivangare il fatto che ai tempi della scuola, da “bravo ragazzo“, non attraevo nessuna bad girls) (e nemmeno good girls) (mah!).


90′ alla fine della prova

A. e S., a due metri di distanza l’una dall’altra stanno cercando di comunicare a gesti, mentre io tengo gli occhi bassi sul mio pc, armeggiando con il registro elettronico. Probabilmente ignorano il concetto di visione periferica, per cui mi trovo costretto ad alzare gli occhi in tono minaccioso verso di loro per farle smettere.

Nessun rimprovero ufficiale, ancora. Da parte mia si è già stabilito un legame con loro, nonostante li conosca da poco più di tre mesi, li tratto con rispetto ed ho instaurato un rapporto abbastanza informale: si scherza talvolta e si torna seri se le circostanze lo richiedono. Questo buon rapporto, che in alcuni casi sarà senza dubbio unilaterale, non vuol certo dire che possono fare ciò che vogliono. La maggior parte di loro lo sa, hanno imparato a conoscermi e devono rispettare le regole, “la sacralità della prova“. In ogni caso, qualunque sia il loro percorso precedente, sono già stati preparati: buona parte di noi insegnanti inizia a seminare il germe del terrore per la prova di maturità già al primo anno delle superiori, ricreandone il clima ad ogni verifica scritta.

C., in fondo, sta guardando insistentemente un punto fisso del banco vuoto accanto a lei. Sono curioso di sapere cosa c’è scritto. Ci vado? No, non ancora. Vediamo se continua. Potrebbe aver scritto qualche formula, ma non so fino a che punto possa trarne giovamento. Lascio correre, del resto, senza quel minimo aiuto non arriverebbe al 2, come G., non fa male a nessuno. So che studia, con i suoi evidenti limiti, gli do comunque una chance.

Mi alzo comunque, per una di quelle che loro chiamano “ronde“. Avverto 3 o 4 movimenti bruschi per sistemare i fogli nel momento in cui si accorgono della mia iniziativa. Lo rifaccio 5 minuti dopo, stessi movimenti presso le stesse persone.  Li guardo uno per uno, avvicinandomi a loro, e poggiando una mano sul foglio sospetto. Un avvertimento silenzioso, un po’ da “Don” Prof, forse, ma funziona. Alla terza volta rimangono tutti fermi.

Mi fermo accanto a C., guardo il suo banco notando che cerca di coprirlo con il gomito.

Nel frattempo G. cerca di prendere, con il braccio lungo dietro il corpo, qualcosa dal suo zaino, in una torsione innaturale che ha visto tutta la classe e forse pure la signora del palazzo di fronte che stende la biancheria. Qualcuno ridacchia pure. Continua a guardare fisso verso di me, mentre io tengo gli occhi saldi sul pc aperto davanti a me. Ecco, ha preso il telefono, lo ha messo sotto la gamba destra. Si guarda in giro, cerca una qualche collaborazione, che arriva pochi istanti dopo. Mentre qualcuno mi distrae lui proverà a fare qualcosa, magari una foto.

M., dalla parte opposta della classe mi chiama, per farmi una domanda impossibile, soprattutto in un quesito posto nella modalità Vero o Falso: “Prof., può dirmi se ho risposto bene? E’ giusto?”.  E’ tutta una tattica per dare tempo a G., infatti, M. ha studiato bene pure il modo di porgermi il foglio, in modo che io potessi dare le spalle a G., pur sapendo di andare in contro alla mia mancata risposta con annessa figuraccia.

Torno alla cattedra, so che G. ha il telefonino in mano, ma non gli consentirò di usarlo.

WhatsApp ha cambiato radicalmente il modo di gestire le verifiche scritte (anni prima c’era stato l’impatto di internet con i compiti per casa. Non li biasimo, io stesso a 16 anni avrei dato un rene pur di trovare online la versione di latino), adesso i più furbi riescono a mandare una foto del compito ed aspettare la Divina Provvidenza, cioè l’amico in gamba, l’universitario che così arrotonda le sue finanze settimanali e, ahimè, immagino, anche qualche collega “dal cuore grande“. Non solo, in passato ho visto ragazzi acquistare gingilli tecnologici di altissimo livello: orologi con microcamera, penne microfono e trasmittenti wireless che talvolta finiscono per vagare nei meandri dell’orecchio interno; roba da diverse centinaia, se non migliaia, di euro.

Gli studenti non cambieranno mai (non “cambieremo” mai, se allarghiamo un po’ gli orizzonti). Ci provano e ci proveranno sempre e non importa quante volte starai loro a spiegare che il modo migliore per affrontare un compito è prepararsi studiando. Vuoi mettere a confronto passare un pomeriggio intero a prepararsi per il compito con l’emozione di uscire con la “morosa”, di fare un torneo online a FIFA 17 appena comprato, di stare a spulciare il profilo Facebook degli amici in cerca di chissà quale novità, di dire “ok, studio appena finisco di fare questa cosa” e poi far rientrare in “questa cosa” una marea di “altre cose” indubbiamente meno impellenti? Infinitamente più affascinante provare a superare l’ostacolo aggirandolo e non sacrificando nulla di ciò che è più piacevole.

Così, mi ritrovo a dover fermare l’esuberanza di G. prima che lui riesca a fare questa benedetta foto. Mi alzo in piedi, vado in fondo all’aula, mi appoggio al muro accanto a lui, simulando indifferenza come James Dean in “Gioventù bruciata“. E’ un momento cruciale, se perdo il controllo dell’aula quando i primi inizieranno a consegnare (presumibilmente dopo un’ora e un quarto delle due ore concesse) (era facile) (non per me, per loro), poi non riuscirò a riprendere il controllo della situazione.


60′ alla fine della prova

Il tempo scorre.

G. sente la pressione e SA per certo che sono lì per lui. Non alza più la testa dal foglio, purtroppo ancora vuoto. Resto lì qualche minuto: è passata già  la prima ora. L. è ancora impegnata in un frenetico cancellare e riscrivere, M. ha capito che tira una brutta aria e starà provando a mettere in pratica ciò che sa. P., ragazzo scrupoloso e volenteroso nella media della classe, che finora era stato buono e tranquillo, si alza e viene verso la cattedra. “Prof, consegno. Ho fatto il massimo, posso andare fuori?

Il primo foglio sulla cattedra è un segnale forte, che può essere interpretato in modi diversi. I bravi alzano lo sguardo increduli, chi per paura di essere stato “superato“, chi per supponenza, alzando un solo sopracciglio come Ancelotti mentre si chiede “chissà che casini avrà combinato!“; F., invece scoppia a piangere. In matematica, purtroppo, è una scena abbastanza frequente.

Vado da lei, il suo foglio somiglia ad un immenso lavoro di arte moderna che, purtroppo, vede tracce di matematica solo in fondo ad un groviglio di cancellature violente. Cerco di tirarla su, la spingo ad andare avanti, le faccio coraggio cercando (e trovando) tracce di correttezza nella sua brutta copia… si riprenderà timidamente solo dopo qualche minuto. Il compito in classe ha un forte componente emotiva (“Prof, a casa ne ho fatte decine, ma qui mi blocco!”, lo ripeteranno fino all’inverosimile. E tu prof sai perfettamente chi lo dice davvero e chi invece cerca di prendere il treno in corsa) e non è altro che il preludio di problematiche con le quali dovranno fare i conti prima o poi nella vita, non soltanto negli studi. Devono riuscire a superarle, trovando la forza in loro stessi e confidando nelle proprie capacità..

G., nel frattempo, rinuncia. Non so se a causa della mia presenza minacciosa o perché davvero è riuscito a chiedere aiuto, ma dall’altro capo dello smartphone chi di dovere non ha trovato tempi e modi. L’amico M. lo osserva e scuote il capo, A. lo guarda con l’aria di chi dice “te l’avevo detto di farti gli esercizi, sei un idiota“, F. si consola: al di là della propria situazione personale, fa sempre comodo avere qualcuno in classe messo peggio di te.

Si alza e consegna il foglio bianco. Seconda volta su due quest’anno. Cosa devo fare con lui? In realtà (purtroppo) lo so già, ma tenterò di recuperarlo fino all’ultimo. Odio fallire nel mio obiettivo formativo, anche se in (molti) casi è successo e succederà ancora. Ogni studente respinto è uno studente a cui non ho saputo trasmettere a pieno ciò che avrei voluto. Per questo, ad ogni compito, sono nervoso quanto loro, il loro esito è anche il mio: chiedo loro rispetto e soprattutto lealtà.


30′ alla fine della prova

A venti minuti dalla fine allento un po’ la presa, volontariamente. Concedo un minimo di scambio di informazioni, facendo finta di non notare sguardi d’intesa e scambi di parole afone, alcuni dei quali condivisi da ragazzi che slogano letteralmente la mandibola per scandire le sillabe a distanza (“QU-AN-TO- TI- E’-RI-SUL-TA-TO-IL-TER-ZO-E-SER-CI-ZIO“, e l’altro, a quattro banchi di distanza risponde allo stesso modo: “NO-NON-HO-VI-STO-EN-ZO-NE’-MA-U-RI-ZIO“).

Stanno più che altro confrontando i risultati. Non c’è più il tempo di stravolgere le proprie prestazioni, al massimo qualcuno trova lo spunto per completare un esercizio o superare un lieve blocco. Credo che loro sappiano che io li osservo comunque, magari non sanno che lo faccio per permettere loro di portare gli 1- (Uno meno, circa 0,75)  ad un meno imbarazzante 2/3 e ai ragazzi più timidi di pareggiare le collaborazioni degli altri che inevitabilmente mi saranno sfuggite. Anche se ai ragazzi, in questi momenti appaio come una figura demoniaca, l’occhio di Sauron in versione scolastica, qualcosa può scapparmi.

Pian piano consegnano tutti. Correggerò tutto prima della prossima lezione, in modo che abbiano il ricordo fresco e possano comprendere meglio gli errori commessi. Alla fine è tutto un chiacchierare e confrontarsi, pronti a rigettarsi nella lotteria delle interrogazioni di Italiano nell’ora successiva: la scuola, nella posizione degli studenti, è stressante, nessuno lo negherà mai.

Resta J., per ultima. Lei resta sempre per ultima. Anche quando si esce da scuola, quando si deve cambiare aula, quando finisce la ricreazione. Ha i suoi tempi (dilatati), ma alla fine si alza e (lentamente) viene a consegnare il compito. Anche lei con gli occhi lucidi. Lo mette sotto la pila, per nasconderlo. Lo riporto su mentre si allontana,  alla fine di un esercizio non completato ha scritto: “Prof. mi scusi, la prossima volta andrà meglio… mi dispiace!“. Non si fa, ma non la punirò certo per questo.

Con la sua consegna, finisce quest’avventura durata due ore, proprio mentre suona la campana.


E’ finita!

Pochi minuti dopo sono alla porta, pronto ad uscire dall’aula. Saluto i ragazzi.

G. è tornato e gioca con il telefonino, dicendo ad O. di tenere la mano aperta in modo da fotografare il Pokemon apparso su di essa. Il foglio bianco è già un ricordo lontano: non ha neanche la paura di raccontarlo a casa perché tutto ciò turberà solo marginalmente i genitori già rassegnati.

A. e S. parlano ancora, stavolta di P., che dal canto suo è rientrato in aula ignorando tutto e tutti, intento a smanettare su whatsapp. Mi salutano (quasi) tutti cordialmente. Il compito di matematica, l’ansia e il nervosismo che lo hanno accompagnato fino a 10 minuti prima, meravigliosamente, fa già parte del loro passato.

L. è sola nel suo primo banco a destra, anche stavolta non ha aiutato nessuno, anche stavolta ha consegnato un elaborato splendido nella forma e nel contenuto, anche stavolta è sola nel suo banco alla fine del test. Tocca al suo M., un po’ titubante anche lui, andare a rincuorarla mentre si chiede ancora una volta perché svolgere il compito perfetto non porti la felicità (“perchè sei una stronza e lo sai, ecco perchè“, lo dicono gli occhi di C., A. e quasi tutte le altre ragazze della fascia di rendimento medio alto)

Infine passo accanto al banco di C., c’era effettivamente qualcosa di scritto sopra. Era una frase, soltanto un incoraggiamento, che mi sento di condividere con tutti voi. Non tanto per lo spaventoso errore grammaticale che contiene, segno di genuinità (come genuino sarà il dolore del collega di Lettere), quanto per il messaggio contenuto, che mi permetto di girare a tutti gli studenti in difficoltà con la matematica: “C’E’ LA PUOI FARE!” (e per inciso, C., guardando velocemente il suo compito, senza ombra di dubbio autenticamente suo, ce l’ha fatta!)

 

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DISCLAIMER

  1. L’articolo NON è stato scritto durante il compito in questione
  2. Le iniziali degli studenti NON corrispondono in alcun modo a quelle degli studenti presenti in aula in una qualunque delle mie classi
  3. Le situazioni narrate NON si riferiscono ad un singolo episodio, ma sono state prese da momenti differenti e raggruppate in modo da far sembrare il tutto un unico racconto rispondente a realtà.
  4. L’immagine di copertina NON è riferita ai soggetti di questo articolo, ma è presa googleando dalla rete. Se dovesse ledere i diritti d’autore di alcuno, saranno immediatamente rimosse (senza alcun NON)

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Commenti

  1. Flavio Pessina

    Grazie per il bellissimo e coinvolgente articolo, mi ha fatto ringiovanire di colpo di trent’anni!
    Se fosse possibile, mi piacerebbe leggere altri post.
    Buon Natale e buone feste

    1. Autore
      del Post
      Back to the Blog

      Grazie mille.

      Il senso è proprio nell’osservare la ciclicità dei ruoli nonostante i tempi e le tecnologie siano totalmente diversi.
      Se cerca dell’altro, può scorrazzare liberamente nel blog come e quanto vuole o sottoscrivere la pagina facebook, l’account twitter o iscriversi via mail direttamente sul blog per ricevere un avviso quando ci sarà qualcosa di nuovo.

    1. Autore
      del Post
  2. Alex

    Salve professore
    Mi è piaciuto veramente moltissimo il suo scritto.
    Frequento la 4a classe dell’indirizzo Chimica, Materiali e Biotecnologie sanitarie del corso serale in un istituto tecnico piemontese e solo oggi comprendo tutta la difficoltà del ruolo di insegnante.. Sopratutto di questi tempi, con i genitori che abbandonano la veste genitoriale per assumere (nella maggioranza dei casi) quella di amico o supporter. Se portavo un brutto voto a casa mi aspettava il caziatone siderale, oggi i genitori protestano dal preside.
    Oggi mi trovo nel mezzo: ho 29 anni, posso ritenermi a metà strada tra il professore adulto che mi sta di fronte ed i miei compagni (circa 60% della classe) reduci dal diurno che mi stanno alle spalle, ai quali ho imparato a volere bene e che non posso in alcun modo giudicare: sia perchè sono solamente (al pari di chiunque) un essere umano, sia perchè ai tempi del diurno ero il classico “è un ragazzo intelligente ma non si applica”, quello che preferisce il ruolo del pagliaccio per sentirsi accettato e che finisce per essere rimandato 3 volte poichè incapace di assumersi responsabilità ed impegnarsi con serietà. Ho dovuto assaggiare il gusto a dir poco amaro della vita per chi puo’ esibir solamente una licenza media e ovviamente crescere per imparare a filtrare il superfluo per rendermi conto dell’importanza fondamentale della cultura. E rendermi conto che sono fondamentali anche i rami culturali che non apprezzo, come appunto la matematica… Che altro non è che il codice in cui è scritta la realtà. Se avessi davanti il me stesso ragazzino mentre afferma che “Quando vado a fare la spesa non mi presentano mica uno scontrino con importo -b +- radice di b^2-4ac” mi auto elargirei un bel calcione “‘ntal cul”.
    Il problema di base, secondo me, è la “cultura” (o pseudo tale) che permea la nostra società malsana. Questo culto dell’apparire a discapito dell’essere, già piuttosto aggressivo e martellante attraverso i mass media “ai miei tempi” (praticamente l’altro ieri). Mass media che oggi hanno invaso anche la rete, rete che 10 anni fa non era così massicciamente “colonizzata” e moltiplicata per le nuove tecnologie che velocizzando esponenzialmente i tempi eliminano attese (come spesso l’umanità) e dunque le riflessioni.
    Mi rendo conto di apparire in questo momento bacchetone se non trombone… Anche se sembrerà assurdo non sono un “tecnofobo” (assemblo sistemi informatici da più di 15 anni) e sono ancora pirla come quando avevo 18 anni (spesso mi accusano di essere affetto dalla sindrome di peter pan) ciò che mi porta a fare certe considerazioni è semplicemente un riflettere sulla mia esistenza e sulla sequela infinita di errori che ho compiuto nella mia vita.
    Ragazzi… Datevi da fare ora, se non volete finire come me. So che probabilmente non servirà a nulla, io ebbi l’esempio di mio fratello maggiore ed ho finito per compiere i medesimi errori… Vi posso giurare che non v’è nulla di peggio di sentirsi dire di essere molto dotati ma rendersi conto che a quasi 30 anni senza ancora un diploma purtroppo è tardi per arrivare da qualsiasi parte, pensando a dove si sarebbe potuti essere se solo ci si fosse impegnati per quell’ora o due al giorno quando era il momento. Il mondo è difficile e la vita in salita.. Ma se fate ciò che va fatto ora, potrebbe essere in piano. Se vi impegnate, potrebbe addirittura essere in discesa! Sbattersi un poco oggi per sbattersi MOLTO MOLTO meno domani. E NON TROVATEVI SCUSE DEL TIPO “NON SONO IN GRADO”! 11 anni fa chiudetti l’anno con un voto unico pari a 5 ed il doppio dell’elasticità mentale, lo stesso anno l’ho chiuso con un 9,5 e molti meno mezzi a livello cerebrale.. Dunque è solo questione di costanza, anche solo un’ora al giorno.
    Amate il sapere, perchè è arma e scudo per il futuro.

    1. Autore
      del Post

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