Una sera da pesce rosso

 

Ciao, il mio nome è J174, sono un pesce rosso cometa, ma da un paio d’ore circa sono diventato “Pomodorino“.

Sto picchiettando questa lettera sulle pareti di un bicchiere di plastica utilizzando l’alfabeto morse, nella speranza che gli umani lo capiscano… o che ci sia un sismografo attivo, estremamente sensibile, nel raggio di pochi metri. Lo faccio nella speranza di salvarmi la vita, perché Goldie, mi guarda da lontano, non vede l’ora di avere un’opportunità per attaccarmi di nuovo. Se accadrà, il mio destino è segnato.

 

Questa è la mia foto. Si, so anche fare un upload tramite il codice binario, 1 è la bocca chiusa, 0 è la bocca aperta. Ora, su, andate a guardare il pesce rosso più vicino a voi e iniziate a trascrivere. Vi risparmio la fatica… starà dicendo, come nel 95% dei casi: 01100001 01101001 01110101 01110100 01101111 00100000 01101100 01101001 01100010 01100101 01110010 01100001 01110100 01100101 01101101 01101001

E’ dura trovare una via d’uscita, davvero dura. Gli umani avrebbero un sacco da imparare da noi pesci se solo ci sapessero ascoltare, ma non ci hanno mai considerato all’altezza per poter provare un dialogo. Noi li comprendiamo, loro ignorano totalmente le nostre potenzialità, dimenticano che siamo arrivati prima noi e con svariati milioni di anni di anticipo.

La storia della mia vita è abbastanza breve, sono nato appena due mesi fa. Non ho mai conosciuto i miei genitori e sono cresciuto con i miei 173 fratelli maggiori della cucciolata 2017-J nel retrobottega di un negozio di animali di un centro commerciale. Lì ho passato i primi 50 giorni della mia vita, in una lotta continua per sopravvivere. Fratelli di covata, ma tutti pronti ad azzannarci l’un l’altro per sopravvivere dovevamo sempre stare con gli occhi aperti, e fortunatamente li abbiamo già.

Quando finalmente siamo passati nel negozio vero e proprio, alla vetrina illuminata, all’acqua finalmente limpida, eravamo solamente in 38. Nei primi due mesi della nostra vita sono morti i più deboli, certo, ma anche qualche testa calda che voleva distinguersi dal banco. In questo somigliamo a voi umani: c’è chi vuole prendere prima il cibo, chi vuole stare in prima fila quando accendono la luce, chi si nasconde al passaggio degli inservienti… ma soprattutto c’è chi vuole nuotare contro corrente. Nella dura legge dell’acquario da allevamento (“sii muto come… te stesso“) non c’è spazio per i protagonisti.

La foto di famiglia, Carnevale 2016. Dall’alto in basso: J3, J15, J101, J75; J21, J156… ok, basta mi fermo qui. Io sono di spalle, in basso a sinistra. Mi riconoscete dalla pinna caudale sbarazzina, no?

Gli umani credono che abbiamo una memoria a breve termine, che dimentichiamo tutto nel nostro procedere avanti indietro nelle bocce: che sciocchi! Potrei ripetere a memoria tutte le loro conversazioni degli ultimi 5 giorni. Ricordo benissimo l’ultima, quando quella signora dai lunghi capelli, chiese al padrone se poteva acquistare contemporaneamente tutti noi fratelli rimasti.

La notizia fece agitare tutti. Ricordo che J27 era felice, non vedeva l’ora di poter giocare con un bambino, li guardava sempre in negozio, puntando il muso verso il vetro; J12 e J86, invece, ne avevano paura, perché furono sorpresi da un bambino che si mise a chiamarli colpendo ritmicamente la vasca con una chiave; J129, come al solito non ha capito un plancton, perché stava tutto il giorno con le branchie attaccate al tubo delle bollicine, e anche stavolta era fuori come un balcone. Gli altri erano ansiosi, in fondo sapevamo che il nostro destino sarebbe stato deciso in poche ore: un acquario, per i più fortunati, una boccia, per la maggior parte, una veloce agonia per alcuni.

Al contrario di quei maledetti pesci pagliaccio, stupidi come alghe secche, che da quando gli umani si sono innamorati di Nemo, hanno visto alzare il loro prezzo e verranno sicuramente trattati bene. Spero che qualche umano sia più ignorante di loro e li metta nella vasca con i piranha. Perché a noi può succedere e a loro no?

La signora dai lunghi capelli ordinò che venissimo messi in sacchetti trasparenti separati e poi inseriti tutti insieme in uno scatolone. Quel giorno era di turno il buon Martin, che gli altri commessi chiamavano “il pescatore” senza curarsi del fatto che a noi pesci quell’associazione non potesse piacere; ricordo che ci salutò dicendo affettuosamente “in bocca al luccio, pesciolini!” e chiuse velocemente la scatola, mettendoci tutti in un cofano di automobile, al buio.

Mentre mi tenevano per mano vedevo il mondo da un’angolazione nuova e diversa. Era bellissimo… Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua… in acqua!

 

Beh, orribile arrivare ad un passo dal giorno più importante della nostra vita e fermarsi lì, senza neanche poter immaginare cosa sarebbe potuto succedere. L’unica certezza è che non saremmo cresciuti insieme. Il distacco definitivo dalla famiglia è triste, ma abbiamo sempre saputo che sarebbe andata così. Eravamo pronti, J66 non faceva altro che dire: “Un giorno torneremo insieme, nella stessa padella!“, con abbondante dose di scaramanzia, sapendo che la nostra specie non è apprezzata dagli umani da quel punto di vista.

Siamo arrivati, dopo 35 minuti di scossoni in una vecchia station wagon e un caldo infernale, solo in 34. Durante il viaggio ci ha lasciato anche J1… lo volevamo tutti bene, era il più grosso di tutti perché poche settimane dopo essere nato aveva ingoiato per sbaglio J33 che era sì un piccolo pesce ma soprattutto un gigantesco rompicoglioni, quindi era considerato una specie di benefattore. E su quel “per sbaglio” abbiamo riso tutti per settimane. Tranne J34, che aveva la stessa taglia di J33 e da allora non ha più parlato.

Appena furono aperti i lembi del cartone che ci conteneva, cominciammo a guardarci intorno. Un altro magazzino, forse un garage. In uno scaffale, ad aumentare la tensione, trovammo il più infausto degli oggetti per l’intero mondo ittico: una fila di bottiglie di vino bianco. La signora dai lunghi capelli stava parlando con un’altra donna, ma non riuscivamo a capire cosa si stessero dicendo perché un frastuono infernale giungeva dall’alto. Erano bambini. Tanti bambini, trenta, forse più.

In quel momento avemmo la certezza che la lotteria non era finita. Eravamo “la bomboniera“! Nessuno di noi sarebbe finito nel bell’acquario di un professionista ad osservare le smorfie imbarazzanti che ci fanno i clienti credendo di non essere visti. Non siamo stati “scelti“, saremmo “capitati” nelle vite di famiglie che all’improvviso, per dei sensi di colpa legati al fatto che siamo vivi (quanto meno questo lo capiscono), proveranno distrattamente a nutrirci, nella speranza nascosta che prima o poi togliamo spontaneamente il disturbo.

Il Giardino dell’edenittico esiste… ma è destinato a pochi fortunati.

Un pesce rosso cometa come me può vivere fino a 25 anni. Cosa ne sanno loro della vita in una boccia grande poco più di un vasetto di Nutella? La voglia di farla finita e rivolgere il ventre al cielo è inarrestabile! Noi siamo animali sociali, vogliamo stare insieme, organizzare bubble party, chiacchierare di dinamica dei fluidi fino a notte fonda. La mia razza, una volta da soli in una boccia, ha il più alto tasso di suicidi per autoingozzamento dell’intero regno animale.

In quei momenti già immaginavo come me ne sarei andato, lo avrei fatto con dignità. Mi sarei finto morto per un paio d’ore, magari mentre il bambino era scuola, e probabilmente sarei finito nello sciacquone del water come forse mio padre e mio nonno prima di me. E come J99, venduto un mese prima e mai arrivato nelle mani del cliente, perché la sua busta scivolò dalle mani di Martin proprio in prossimità del bagno del negozio. Cosa c’è al di là dell’oscuro pozzo vorticoso? Nessuno è mai tornato indietro per dirlo, magari un posto migliore, magari il mare… Il Kraken ci avrebbe inghiottiti o allevati. Da mesi, vivevo nell’attesa di scoprire cosa sarebbe successo quel lontano giorno. Chi avrebbe mai pensato che potesse finire tutto per pinne di un “Goldie“?

Credevo non restasse altro che aspettare la fine della festa, ma il destino aveva in serbo altro per noi. La donna con i lunghi capelli aveva chiamato un’altra femmina umana, che tutti lì chiamavano “animatrice“. Ne avevo sentito parlare al negozio: aveva il compito di far divertire i cuccioli umani, a qualunque costo. La prassi prevedeva che avrebbe mostrato ai bambini alcuni di noi, il festeggiato avrebbe scelto il suo e gli altri sarebbero stati pacificamente distribuiti agli invitati, fra le facce infastidite delle loro mamme. Di sicuro il ragazzino che compiva gli anni avrebbe scelto J1, se solo ce l’avesse fatta.

Non andò così, purtroppo. Mentre aspettavamo in fase di riposo, gironzolando nella nostra busta in attesa di vedere la luce, fummo sollevati e posizionati su un tavolo. La signora dai lunghi capelli prese me, J14 e J104, che eravamo in cima, e ci portò su per delle scale. Rimasi abbagliato; quando gli occhi si abituarono in entrambe le direzioni si vedevano umani, i piccoli in fila di fronte a noi, i grandi addossati alle pareti.

La mia significativa espressione nel momento in cui compresi di essere l’attrazione in mezzo a decine di umani (foto di repertorio) (si, ho anche un mio repertorio) (dovreste vedermi quando faccio gli occhi da pesce lesso)

L’animatrice, con un sorriso che mi piacque davvero poco, disse che noi tre eravamo “i premi“. Premi? Per cosa? In pochi istanti, prese il mio sacchetto, lo aprì e senza esitare mi travasò in una ciotola di plastica. Non so dire come mi sentii… Avevo paura ed ero eccitato insieme, non avevo mai provato l’ebbrezza del passaggio attraverso l’aria, ho provato una incredibile scarica di adrenalina, legata al senso del pericolo, al breve transito in un ambiente ostile. Capisco adesso perché gli uomini si infilano in quelle ridicole tute gommose e provano a venire nel nostro elemento. Dovrebbero farne anche per noi… Se solo avessimo degli arti, provvederemmo da soli! Maledetta evoluzione: ha dato a noi delle semplici pinne e ai calamari dei tentacoli prensili… non posso crederci: i calamari… la cui unica utilità è… beh, non c’è proprio!

Mi ritrovai in questa ciotola, cominciai così a perlustrare il perimetro, girando in tondo per farmi un’idea della situazione. Io ero sulla destra del tavolo, J14 al centro e J104 sulla sinistra. L’animatrice disse al bambino, con un tono finto gentile: “Bene, piccolo, se centri la vaschetta con il pesce… è tuo!

Boccheggio lì per lì un “Cooooooooooooosa? Un bombardamento???? Che accidenti di gioco è????“. Cominciai a girare in tondo anche in segno di dissenso. Vorrei vedere voi se vi lanciano addosso un’automobile, quanto siete contenti! Avevo paura, cercai comunque di mantenere la calma. Sapevo come assorbire l’impatto di una pallina di plastica bianca vuota nel liquido, sarebbe bastato nuotare un paio di centimetri sotto il pelo dell’acqua, come avevo imparato al corso di autodifesa, nel modulo didattico “fiere di paese“. Poi un rumore improvviso: “BONG!” mi giunse dall’altra palle del tavolo. Il gioco era iniziato, il primo bimbo aveva mancato le tre vasche, finendo poco oltre J14, che ancora sembrava stordito da ciò che aveva visto e iniziò a fingersi morto, ricordando che un tempo J1 gli diede un consiglio da riadattare per l’occasione: “chi dorme non viene pescato dall’uomo“.

J29 mi disse un giorno di aver parlato con un Guppy di un suo amico che aveva saputo da un parente che esistevano dei giochi tanto crudeli nel mondo esterno. Ma non gli credetti mai. Erroneamente.

Il problema era più serio del previsto, non si trattava di una comune pallina da ping pong, ma di una palla di gomma pesante. L’animatrice si è rivelata per quello che è: una spietata sadica assassina. Non sarebbero bastati neanche 5 cm centimetri di distanza, la pallina sarebbe andata a fondo nell’impatto e, se mi avesse colpito, per me sarebbe stata la fine. Così, decisi di far increspare l’acqua per aumentare la superficie d’impatto e diminuire la propagazione dell’onda d’urto; allo stesso tempo iniziai a nuotare molto più vicino al bordo, così sarebbero diminuite le chance di un impatto diretto, a scapito però dell’aumento del rischio di essere sbalzato fuori. Mi aveva insegnato questo trucchetto una simpatica manta – Martin la chiamava “Facciapiatta” – che era stata solo tre giorni in negozio, ma che aveva vissuto l’orrore continuo di appartenere ad un acquario con la vasca tattile.

La seconda palla fu diretta verso di me, colpì il bordo posteriore della ciotola, proprio mentre mi ritrovavo nelle sue vicinanze e rimbalzò fuori. La scodella ondeggiò in avanti e all’indietro, uscì parte dell’acqua e, per pochi istanti, mi ritrovai con la pinna al vento. Le mamme urlarono di paura ed i bambini erano sempre più esagitati: non vedevano l’ora di riuscire a centrarci, non pensavano minimamente alle conseguenze che tale impatto poteva avere su di noi.

Fu infatti il terzo bambino, un esemplare di circa 9 anni, a centrare il bersaglio. Lanciò dritto verso J104, avvicinandosi troppo in barba alle regole del gioco, la traiettoria disegnò un arco nel percorso che la condusse dritta alla pinna dorsale del mio fratello maggiore. Lo vidi inarcarsi in modo innaturale in una smorfia di dolore mentre gli umani erano tutti felici. Il bambino urlava e saltellava, aveva vinto il premio, mentre J104 smise, per sempre, di girare in tondo.

Rimase immobile, al centro della vasca, accanto a quella palla dal diametro tre volte più grande di lui, che ormai galleggiava inoffensiva. Mi guardava e muoveva la testa, solo quella.

Gli stupidi umani intuirono finalmente – soltanto adesso – che potevamo farci davvero molto male. Non avrei più visto mio fratello dopo quella sera, questo lo sapevo già, ma saperlo in quelle condizioni, per tutta la sua vita, non faceva che aumentare la mia rabbia per l’impotenza che la natura ci ha dato contro queste incontrollabili bestie.

La donna dai lunghi capelli decise di spostarci ai bordi del tavolo, lasciando una scodella vuota al centro come bersaglio. Non vedevo più J14, niente più che il lento e goffo galleggiamento di J104. Non posso non ricordare che proprio lui, uno dei più atletici, bravissimo nel suo girare in tondo agonistico, mi insegnò un tempo a nuotare a pancia in su ed a muovere in modo invitante la pinna caudale verso la bella fantail della vasca accanto.

I bambini continuarono a lanciare, spinti da un entusiasmo legato più alla voglia competitiva di riuscire a centrare l’obiettivo, che di ottenere il premio. A parte qualche scossone di rimbalzo, il peggio sembrava essere passato, così come, poco dopo, il nostro momento di protagonismo. Ci rimisero nella scatola e tornammo ad aspettare che ricominciasse la roulette della destinazione.

Dico io… ci voleva tanto a pensare sin da subito ad una cosa così? Si vedeva subito che l’animatrice non sapeva che pesci pigliare.

Passò poco, circa un’ora, quando sentimmo nuovamente l’inconfondibile incedere della donna dai lunghi capelli. Nel frattempo, avevamo cercato tutti di consolare J104, colpito così duramente ad un passo dalla destinazione. Sognava l’acquario di uno studio medico, dove sarebbe cresciuto a dismisura e, magari, lì vi avrebbe incontrato, la carassia argentata della vasca due-zero-quattro, della quale si era innamorato mentre commentavano insieme le immagini dei monitor della sorveglianza. Mi diceva spesso che avrebbe voluto fare diverse centinaia di pesciolini con lei, metà rossi e metà argentati e li avrebbe chiamati tutti J, come noi, intimandomi spesso di non rivelare mai a nessuno il suo grande segreto: “Se le dici che ho una pinna pelvica minuscola… mi raccomando… aria in bocca!

C’era qualcuno con lei, passi da uomo adulto. Fummo sollevati direttamente dentro lo scatolone e portati su per le scale, traballando non poco, tanto che finii quasi in fondo alla scatola.

Poi ci aprì e la signora dai lunghi capelli iniziò a prenderci uno per uno e consegnarci ai bambini. Finalmente avremmo trovato casa. La nostra destinazione finale.

J33, fortunato a ritrovarsi in alto e con l’estremità rivolta verso l’alto finì dal padrone di casa, tutti gli altri venimmo assegnati ad un bambino diverso. Lì incontrai il mio nuovo proprietario, il bimbo con gli occhi grandi. Lo studiai un po’, non sembrava cattivo o violento, pensai che forse non mi era andata poi così male. Mi disse subito: “Sei bellissimo, rosso come un pomodoro“, mentre poco dopo mi fece preoccupare solo una frase: “Non vedo l’ora di fargli conoscere Goldie!

E adesso sono qui, a girare in tondo e a picchiettare scioccamente un messaggio che nessuno mai riuscirà ad ascoltare. L’impatto con Goldie non è stato positivo: ho già perso mezza pinna caudale, ho contusioni in tutto il corpo e quella belva assetata del mio sangue non vede l’ora di tornare all’attacco… si, avete capito bene, Goldie, un carasso dorato nato e cresciuto ai bordi di qualche allevamento di periferia, non ha nessuna intenzione di dividere la sua grande boccia pacificamente con me.

All’inizio mi ha studiato, poi con un accento da pesce di bancarella al mercato ha iniziato a urlarmi di andarmene. Cosa voleva che facessi? Dovevo saltare fuori dalla bolla a colpi di pinna? Ho provato a rispondere in modo semplice, che non era colpa mia, che ero finito lì e basta… qualcosa che potesse capire, ma nulla… nel riformatorio subacqueo in cui sarà cresciuto non gli hanno insegnato i concetti base della condivisione. Probabilmente si sarà pure mangiato la maestra. Quando si è avvicinato a me la prima volta, temevo qualche colpo, ma non che mi azzannasse la pinna, che iniziasse a darmi colpi di coda, che girasse intorno a me nell’attesa che mi distraessi fatalmente.

Goldie, minaccioso come sempre.

Il bimbo dagli occhi grandi era sempre più preoccupato per me e chiamò gli adulti in un’altra stanza. Credo abbiano capito la mia situazione, mi hanno preso con una manovra incerta e fatto entrare in questo bicchiere di plastica trasparente. Si sono pure meravigliati di essere riusciti a catturarmi facilmente. Non hanno capito che appena ho visto quel bicchiere, mi ci sono fiondato immediatamente io… per puro istinto di sopravvivenza. Adesso Goldie mi bolleggia contro, dalla sua comoda ampolla, nonostante ci sia un invalicabile muro d’aria a separarci. Sto alquanto strettino, ma sono vivo, questo è ciò che conta.

Stanno ancora discutendo di cosa fare con me. Pare che domani mi trasferiranno all’aperto, in una grande fontana in campagna dove sono già presenti altri pesci rossi, appartenenti a lontane generazioni passate. Sono lì da mesi, forse anni, alcuni di essi sono diventati grandi come orate. La lotteria ricomincia, ancora una volta. Come mi accetteranno, dato che sarò visto come ultimo arrivato? Sarò la loro mascotte o dovrò dormire con gli occhi aperti (come sempre, del resto) per non essere mangiato?

Questo bicchiere, tutto sommato, non sarebbe male come sistemazione definitiva, basterebbe arredare un po’ qua e un po’ là, con gusto, delicatezza e… si, tutto va bene pur di non finire di nuovo con Goldie

Questa è la mia storia, se per me ci sarà un futuro… beh, non lo so. Di sicuro quando prenderete un pesce rosso a vostro figlio, pensatemi… e magari chiamatelo come me, Pomodorino.

Sarà stato forse l’unico gesto d’affetto di un umano della sua esistenza, ma lo ricorderà per sempre.

 

P.S. E se doveste incontrare un Goldie nella vostra strada… non ditegli mai “ciao, sono il tuo nuovo coinquilino“!

 

 


BackToTheBlog, 13/04/2017

NOTE

  • Basato su una storia vera. Lo può confermare la donna dai lunghi capelli, il bambino dagli occhi grandi e, naturalmente, lo stesso J107 se ve la cavate con il Morse.
  • Non sono animato da particolari simpatie animaliste, però ogni tanto mettersi nei panni delle altre creature che ci circondano può aiutarci a capire meglio questo pazzo mondo.
  • Lezione ai posteri: fate in modo che ci siano meno adulti possibili alle feste dei vostri bambini, correte il rischio che qualcuno si prenda la briga di bloggarci sopra facendovi sembrare i mostri che in realtà non siete. Le animatrici, probabilmente, lo sono.

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